Elena Pugliese

Canto libero, 2019

Un telefono da sottomarino fa inabissare il pubblico nelle profondità marine, intrecciando nel ritmo del dialogo le complesse vocalizzazioni dei cetacei e le voci delle operatrici del Telefono Rosa registrate nel centro antiviolenza, atti d’ascolto al quale l’opera riconosce un forte valore civile e politico, che proietta a sua volta nell’esperienza di ascolto del pubblico.

Di fronte al sommerso sonoro di Marzia, ai suoni dei canti delle balene inabissate nel fondo marino, ho costruito una drammaturgia in grado di immergersi anch’essa nel tema della violenza sulla donna: un sommerso appunto che resta tale nelle mura domestiche. Ho lavorato cercando di creare un ulteriore sommerso nel sommerso, un abisso negli abissi, come una caverna, un buco, un vuoto, uno scavo.
Ho così scelto di togliere completamente le storie personali, le trame, il testo delle vite e ho spostato il piano di realtà sulle operatrici del Telefono Rosa, le loro voci, le loro domande al telefono. Ogni domanda e tono della voce porta con sé l’immaginario della risposta, delle storie inabissate che solo chi le vive può raccontare. Ogni domanda senza risposta apre vuoti tesi, scenari che si possono solo immaginare. Non ci sono storie, ma condizioni umane.
L’unica verità nel descrivere una storia che non è la tua, può essere l’emozione che provi nell’ascoltarla. La storia dell’altro che ti attraversa, di cui puoi fare esperienza solo attraverso le emozioni che ti genera.

Senza emozione non c’è apprendimento, Jerome Bruner
Nella descrizione di una storia di vita che non è la propria sono solita lavorare in modo tale da far fare al pubblico esperienza della vita dell’altro.